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Bruxelles non ci sente

Su una cosa gli euroscettici hanno ragione: l’Ue non ascolta i suoi cittadini. La risposta alla crisi dell’euro non fa che confermare la tendenza a prendere tutte le decisioni a porte chiuse e a renderne conto soltanto alle elite dei tencocrati.

Quando il filosofo tedesco Jürgen Habermas parla dell’Europa e del suo paese, i suoi connazionali prendono appunti. Europeista appassionato, molto seguito e rispettato negli Stati Uniti, l’ottantaduenne Habermas di solito interviene quando sente che le cose stanno andando per il peggio. Così, quando recentemente il filosofo ha parlato a Berlino della crisi dell’euro, la platea ascoltava in religioso silenzio. Habermas ha accusato le élite politiche di non assumersi le loro responsabilità e di non portare l’Europa dai suoi cittadini.

“Il processo dell’integrazione europea, che da sempre avanza sulle teste della popolazione, si è cacciato in un vicolo cieco”, ha spiegato il filosofo in occasione di un incontro organizzato dall’European council on foreign relations. “Non si può più andare avanti a meno di passare dalla consueta modalità amministrativa a un ampio coinvolgimento dell’opinione pubblica”. Le élite politiche “stanno seppellendo la testa sotto la sabbia […] e si ostinano a portare avanti il loro progetto elitario che ostacola l’emancipazione della popolazione europea”.

Coloro che condividono l’opinione di Habermas citano spesso il comportamento di José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, e di Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo (che rappresenta i 27 stati membri). Nel corso degli ultimi mesi nessuno dei due è riuscito a spiegare all’opinione pubblica cosa sta succedendo all’Europa e alla sua moneta. Quando concedono interviste tendono a rivolgersi a un pubblico d’élite, e non sembrano intenzionati a coinvolgere i cittadini europei. “Dubito che abbiano mai pensato di organizzare un incontro aperto con la popolazione”, si rammarica Pawel Swieboda, direttore di DemosEuropa, un istituto di ricerca indipendente di Varsavia.

Barroso e Van Rompuy sono stati scelti a porte chiuse. La cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy, che sulle questioni legate all’Europa tendono ad aggirare l’opinione pubblica, hanno avuto un ruolo fondamentale nella scelta di chi doveva governare a Bruxelles. Molti analisti sono convinti che i due abbiano preferito scegliere leader deboli che in qualche modo fossero legati alle due potenze europee da vincoli di gratitudine.

Chi vorrebbe un aumento di democrazia nell’Unione europea per conferire ai leader di Bruxelles una maggiore legittimità e forzarli a giustificare pubblicamente le loro decisioni si trova di fronte a due ostacoli.

Il primo è rappresentato dalla determinazione dei parlamenti nazionali a conservare ciò che rimane del loro potere. Allo stato attuale i due terzi delle leggi vengono approvate a Bruxelles e successivamente sottoposte al giudizio dei parlamenti nazionali. Non stupisce dunque che i legislatori tedeschi siano così preoccupati dalla crisi dell’euro.

Il progetto di un governo economico dell’Ue, tracciato a grandi linee da Merkel e Sarkozy in occasione del loro incontro di Parigi del 16 agosto, comporterebbe un’ingerenza da parte di Bruxelles nel sistema tributario e nel bilancio nazionale della Germania. La creazione di un governo economico è un passo logico nel processo di integrazione economica nell’Ue, ma i legislatori si chiedono dove siano la trasparenza e la responsabilizzazione democratica. Secondo Habermas, semplicemente, non ci sono.

Il secondo ostacolo consiste nel fatto che un aumento di democrazia comporterebbe una modifica dei trattati dell’Ue, che tra le altre cose stabiliscono le modalità della scelta dei leader a Bruxelles e il funzionamento delle istituzioni. “Si tratta di un grosso problema per la legittimità. Se si vuole raggiungere una legittimità maggiore attraverso i mezzi preposti, allora bisogna necessariamente modificare i trattati”, spiega Krzysztof Bledowski, un economista esperto di questioni europee e direttore del Manufacturers Alliance, una lobby di Arlington (Virginia) che osserva attentamente gli sviluppi sull’altra sponda dell’Atlantico.

La verità però è che nessun leader dell’Unione vuole rimettere mano ai trattati, siglati solo dopo negoziati  estenuanti. Certo, l’Unione potrebbe almeno affrontare una democratizzazione in “tono minore”. Tuttavia, come sottolinea Swieboda, “l’Ue funziona sulla base del metodo e dei processi, che hanno la precedenza sulla democrazia”.

Le decisioni più importanti, come l’introduzione dell’euro o l’allargamento dell’Ue, vengono prese inizialmente a piccoli passi, in modo tale da impedire a chi è contrario di coinvolgere l’opinione pubblica nella sua causa. Poi, una volta che il processo accelera improvvisamente, diventa difficile da fermare. Sia la Commissione che gli stati membri si sono sempre difesi sostenendo che una spaccatura sarebbe troppo rischiosa e comporterebbe costi elevatissimi. E d’altronde, alla fine, una maggiore integrazione è nell’interesse di tutti.

Il metodo Monnet

È innegabile che l’Ue come la conosciamo non esisterebbe senza il “metodo Monnet”, così chiamato in onore di Jean Monnet, padre fondatore dell’Europa che nei primi anni 50 ha avuto un ruolo fondamentale nei primi, timidi passi verso l’integrazione della Comunità europea dell’acciaio e del carbone.

Anno dopo anno, decisione dopo decisione, si è arrivati a un mercato comune per tutti i beni. Ma lo stesso metodo è stato impiegato nel 2001, quando la Grecia è entrata nell’euro nonostante molti economisti e investitori nutrissero forti dubbi sulle credenziali di Atene, e di nuovo nel 2008, quando Bulgaria e Romania sono entrate a far parte dell’Unione europea nonostante diversi giudici e ufficiali della sicurezza avessero messo in guardia l’Europa sulla corruzione endemica e sulla criminalità organizzata in entrambi i paesi. Gli avvertimenti sono stati ignorati perché il processo non poteva essere fermato.

Le critiche a questo modello decisionista non sono per nulla benvenute. “La reazione dello status quo è questa perché l’Europa è la risposta a tutto e non deve essere messa in discussione”, spiega Swieboda. “Se metti in dubbio l’operato della Commissione, per esempio, vieni subito tacciato di essere un’euroscettico”. Questo approccio ha favorito i partiti populisti ed euroscettici. Gli europeisti li chiamano anti-europei. Ma la verità è che i partiti populisti, sempre più corteggiati dalla destra tradizionale, hanno ragione su una cosa: l’Unione non ascolta i cittadini.

“Ci mancano leader europei di peso”, sostiene Andrea Römmele, professore di comunicazione politica e scienze sociali all’Hertie School of Governance di Berlino. “Con un numero così elevato di problematiche nazionali ed europee che si sovrappongono, c’è un grande bisogno di leader europei in grado di comunicare con l’opinione pubblica e rafforzare l’Unione”.

La crisi dell’euro è l’esempio più evidente di come i leader abbiano fallito nella loro missione. I sostenitori di una maggiore integrazione sottolineano che, se e quando l’Europa riuscirà a tirarsi fuori dal pantano, la leadership di Bruxelles non potrà restare invariata. Se le porte dell’Unione non si apriranno alla responsabilizzazione e alla democrazia, l’Europa cadrà preda del populismo.