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I ragazzi italiani e le lingue: un po’ di inglese e basta

Quello tra i ragazzi italiani e le lingue straniere è un rapporto ancora sospeso tra genericità e approfondimento, tra conoscenza e padronanza. Da un punto di vista scolastico, le nuove generazioni manifestano notevoli progressi rispetto anche solo a dieci anni fa. Ma a fare da contrappeso (in negativo), rimane una certa resistenza a sostenere esperienze di lavoro all’estero o più semplicemente ad approcciare culture diverse.

I risultati arrivano dall’indagine “La conoscenza delle lingue tra formazione e cultura”, condotta dall’istituto Makno: ricognizione ad ampio spettro sul tema delle lingue straniere in Italia, in termini di conoscenza, percorsi di approfondimento e ruolo per lo sviluppo professionale e culturale dei giovani. Un lavoro giunto in occasione dei 60 anni dalla fondazione della Scuola superiore per mediatori linguistici Carlo Bo. «La scuola della Milano locomotiva d’Italia, fondata da Carlo Bo e Silvio Baridon», racconta l’amministratore delegato Giovanni Puglisi. «Della Milano che si apre all’Europa in un periodo in cui (era il 1951) il paese parlava più il dialetto che l’italiano. Da allora la Scuola non si è più fermata, aprendo nuove sedi e rinnovandosi continuamente».

L’analisi è stata svolta attraverso una web survey a livello internazionale su un campione di 1200 giovani di età compresa fra i 17 e i 23 anni: 200 per ognuno dei 6 paesi scelti (Italia, Francia, Germania, Spagna, Polonia e Cina). E affiancata da un’indagine qualitativa sui ruoli professionali legati alle lingue nella business community e nelle istituzioni pubbliche.

Fughiamo un primo (comprensibile) dubbio. «In classifica – spiega il presidente dell’istituto di ricerca Makno, Mario Abis – siamo messi discretamente. Il problema è però la conoscenza di più lingue, non solo dell’inglese». In Italia il 44% dei ragazzi dichiara infatti di conoscere una sola lingua straniera (che per l’85% è l’inglese): un traguardo dignitoso, verrebbe da dire, se confrontato al 23% della Francia, al 28% della Germania, al 48% della Spagna e al 20% della Polonia (mentre la Cina vola al 74%). Ma che perde valore nel confronto con lo step successivo: il 43% degli italiani conosce due lingue straniere, contro il 48% dei tedeschi, il 64% dei francesi, il 67% dei polacchi (i cinesi in questo caso raggiungono “solo” il 21 per cento).

La scuola è ovunque il canale principale per la conoscenza delle lingue: il 68,5% degli italiani dichiara di averle apprese in aula (Francia 81,5%, Germania 82%, Spagna 60,5%, Polonia 59,5%, Cina 69%). Anche se per il 37% dei giovani il livello di insegnamento offerto dal sistema scolastico italiano rimane “scarso”.

In realtà, ai ragazzi italiani manca ancora una sorta di spinta conoscitiva: mostrano una bassa propensione al multiculturalismo, a immergersi in una diversa realtà culturale. E’ vero che il 58,5% ritiene che la cosa più importante per le lingue – oltre alla didattica – sia trascorrere periodi di studio/lavoro all’estero (il pensiero è analogo nei principali paesi europei). Ma questa si rivela un’apertura puramente ideale, non ancora supportata da una decisione concreta: ad aver già programmato un’esperienza scolastica fuori confine è di fatto una bassa percentuale (il 10%). E addirittura solo l’1,5% per quanto riguarda le esperienze di lavoro.

Restando in ambito lavorativo, manager, responsabili delle risorse umane di aziende ed enti pubblici riconoscono ai giovani che escono da scuola una buona dimestichezza con l’inglese, sempre più in linea con gli standard europei. Ma questo pre-requisito non basta: ci vuole una competenza comunicativa culturale che consenta alla lingua straniera di diventare effettivo mezzo di scambio. «Di passare dalla langue (buon livello di conoscenza scolastica) alla parole (buon livello di padronanza) al bilinguismo», dice il direttore della Ssml, Paolo Proietti. Oggi all’interno delle aziende il numero di persone bilingue è ancora esiguo, ed è per questo che risultano così ambite. «Per raggiungere il gradino più alto, però, bisogna diventare esperti non solo di lingue, ma anche di culture», chiosa Proietti. Coniugare una padronanza linguistica ottimale a una raffinata sensibilità interculturale: quel che distingue – in sintesi – il profilo di un mediatore linguistico di successo.

di Dario Aquaro

Tratto da Il Sole 24 Ore

 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-10-18/ragazzi-italiani-lingue-inglese-162743.shtml?uuid=Aaw9Y1DE